I figli del Mekong

A cura di: Luigi Ruoppolo

Ottobre 2007.
La sanguinosa repressione della protesta dei monaci birmani, da parte del governo di Yangon, ci preclude un viaggio programmato da tempo.
Il Myanmar non rilascia più visti turistici.
Le frontiere sono chiuse.
Ma la voglia di partire è tanta e il cambio di rotta arriva puntuale.
Andiamo a scoprire il Laos?
Sì, andiamo.

Il Muang Lan Xiang, il “Regno di un milione di elefanti...

La nostra avventura inizia a Chiang Rai, ridente località del nord-est della Thailandia, ad un'ora di strada dal confine con il Laos. Giusto il tempo per visitare il famosissimo mercato notturno: un mix di odori, sapori, suoni e rumori che avvolge completamente i nostri sensi. Un luogo che mostra un ritmo di vita tutto suo, in un Paese che ha fatto dello street-food uno stile di vita.

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Il giorno dopo siamo subito a sbrigare le formalità doganali, alla frontiera tra i due Paesi: il Mekong. Attraversarlo per andare dalla Thailandia in Laos è come fare un salto nel passato. Due mondi diversi, così vicini, così distanti.

Il Mekong, “la Madre di tutte le acque”, nasce, come la maggior parte dei grandi fiumi asiatici, in Tibet ed attraversa la provincia cinese dello Yunnan, il Myanmar, la Thailandia, il Laos, prima di entrare in Cambogia e da lì in Vietnam, dove sfocia nel Mar Cinese meridionale, formando un immenso delta. Undicesimo fiume del pianeta per lunghezza, attraversa il Laos da nord a sud, costituendo per gran parte della sua lunghezza il confine naturale con Myanmar e Thailandia. La sua vasta rete di affluenti garantisce un indispensabile apporto d'acqua al Paese, uno dei più poveri del mondo, unico Stato dell'Indocina privo di sbocco sul mare.

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Ma il cuore del nostro viaggio è la regione delle montagne nel nord del Laos, un'area sperduta e pressoché inaccessibile, incuneata tra i grandi, e per molti versi scomodi, Paesi confinanti: Myanmar, Cina e Vietnam. Un'area vastissima, montuosa, coperta da foreste tropicali lussureggianti e solcata dal grande fiume e dalla sua rete di affluenti. Un'area priva di grandi centri urbani, ma densa di villaggi dai nomi esotici, lontani anni luce dagli stress occidentali, in cui le giornate sono regolate dal ciclo solare ed il centro della vita sono ancora i mercati: Muang Sing, Muang Xai, Muang Khua, Udomsin. Un'area abitata dal più alto e vario numero di minoranze etniche al mondo, popoli che per i più svariati motivi sono entrati in Laos dalla Birmania, dal Vietnam, dal Tibet, dalla Cina, dando vita ad un crogiuolo di razze unico ed affascinante: Lao, Lao Thai, Hmong, Miao, Akha, Yko, Yao. E poi le minoranze delle minoranze: Lao-Lu, Pa-La, Taidam.
Gruppi etnici tribali, di religione animista, fieri delle proprie tradizioni e costumi, che seguono ancora un ritmo di vita ancestrale, dominato dallo scorrere delle acque e dai monsoni.
Mille popoli, uniti a formare un popolo solo. Un popolo con mille problemi e mille necessità, ma che sembra vivere dignitoso e sereno al ritmo della natura.

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Vaghiamo senza meta per i villaggi, per i mercati, percorriamo chilometri e chilometri di strade polverose, spesso appena abbozzate, che si inerpicano tra le montagne, restiamo stupiti dalla bellezza del paesaggio e della vegetazione.
Pochi ancora, in questi luoghi, sono i segni della civilizzazione, così come la intendiamo noi occidentali: qualche cavo elettrico, qualche parabola.

Reato affascinato nel veder ripetere ovunque i gesti semplici che costituiscono la vita quotidiana di queste genti: la cura del riso, la raccolta delle alghe, la pesca, la coltivazione della terra, i panni lavati al fiume.

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E poi, i bambini.
Mi colpiscono i loro occhi grandi, i loro sguardi puri, ma spesso malinconici, la loro dignità e fierezza, la loro inesauribile capacità di giocare e divertirsi con poco, ma anche l'aiuto che spesso sono chiamati a dare agli adulti.

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Da Muang Khua, al confine vietnamita, discendiamo il principale affluente del Mekong, il Nam Ou, con veloci lance a motore. Lo scenario che scorre davanti ai nostri occhi è fantastico! La vegetazione e le colline carsiche, tipiche di questa parte del mondo, formano spesso pareti di roccia verde incombenti, sotto le quali scivoliamo veloci, in un silenzio irreale rotto solo dai piccoli motori delle nostre barche.

Il pensiero di tutti va ad Apocalypse now e al colonnello Kurtz ….
Si percepiscono ancora nel Paese i devastanti effetti della “guerra americana”, come la chiamano da queste parti, la “Guerra segreta” durante la quale il Laos, costituendo un corridoio di fuga per i Viet Cong, fu oggetto per anni di pesanti bombardamenti aerei.

Eccoci alla grotta di Pak Ou, alla confluenza tra i fiumi Nam Ou e Mekong. Una vasta grotta carsica naturale, ma, in realtà, un'esperienza mistica: centinaia di statue del Buddha, di tutte le forme e dimensioni, sono stipate in questo luogo, in cui la tradizione laotiana vuole che ogni devoto fedele si rechi prima di intraprendere un viaggio.

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Così, quasi inavvertitamente, ci siamo avvicinati all'anima buddista del Paese, la splendida Luang Prabang, la “Capitale Regale” del piccolo Buddha o Buddha dorato, città dolcemente e pigramente adagiata su un'ansa del Mekong.
Fiera del suo passato coloniale francese, inserita dall'Unesco nel Patrimonio dell'Umanità, la città è uno scrigno di tesori architettonici, dal Palazzo Reale agli innumerevoli templi e monasteri.
Ovunque si respira un'aura di serenità: saranno la gentilezza ed i sorrisi dei suoi abitanti o il gran numero di monaci buddisti? A Luang Prabang il tempo sembra essersi fermato.
E fuori del tempo sono i monaci che ogni mattina, all'alba, in fila indiana formano una lunga processione che si snoda per le principali strade della città. Ad ogni angolo donne, per lo più anziane, li attendono per donar loro una manciata di riso, ma spesso anche frutta o denaro, forse in cambio di una preghiera. Il rapporto dei laotiani con i "loro" monaci è viscerale.  

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L'ultima tappa del nostro viaggio è Vientiane, antica capitale del regno e come tale scelta anche dai dominatori francesi. La prima, netta impressione è che siamo in una “grande” città: gente più indaffarata e meno sorridente, un po' di traffico, un lieve caos, ma nulla di paragonabile alle metropoli del Sud-est asiatico. L'atmosfera è comunque cambiata.
Ma Vientiane ci riserva anche un'ultima, bellissima sorpresa: il Pha That Luang, il “Grande Reliquiario Sacro”, un'imponente pagoda dorata, centro religioso e simbolo del Paese, famoso in tutto il mondo buddista. All'interno delle possenti mura del suo cortile, ritrovo per un attimo il Laos che ho conosciuto: incensi e candele ovunque, fiori, gente assorta in preghiera.

Luigi Ruoppolo

Seduto ad un bar che domina il Mekong, a Vientiane, osservo le acque limacciose del fiume che scorrono veloci, ingrossate dalle piogge torrenziali del monsone appena finito. Prima di partire, rivedo i mille volti incrociati sulla nostra strada, gli occhi carichi di speranze dei bambini, ripenso al nostro viaggio, ai dubbi della vigilia. No, non è stato affatto un ripiego.

Mi tornano alla mente le parole di Tiziano Terzani, profondo conoscitore dell'Indocina e dell'intero continente asiatico: “Il Laos non è un luogo, è uno stato d'animo. Uno dei luoghi più romantici e quieti dell'Asia, uno degli ultimi rifugi del vecchio fascino d'Oriente. Un popolo del passato che solo per puro caso, il caso di trovarsi in mezzo all'Indocina, è stato costretto a vivere fisicamente nella violenza del mondo contemporaneo.”

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