Nikon School in Mongolia, un viaggio vero ma non alla portata di tutti

A cura di: Edoardo Agresti

Quando penso alla pianificazione di un Nikon School Travel ci sono diversi parametri che prendo in considerazione, ma quello a cui dedico più attenzione, in sintonia ovviamente con il mio essere fotoreporter, è alla possibilità di fotografare la real life senza particolari problemi. Mi spiego meglio: le persone che vengono con me, oltre a confrontarsi con un professionista al “lavoro” vogliono scattare a loro volta. Perciò non seguirei mai un gruppo in un viaggio fotografico in Marocco, semplicemente perché lì è 'impossibile' fotografare la gente senza pagarla o senza rischiare di essere assaliti in modo violento.

Questa scelta comporta spesso dei compromessi sulle comodità del viaggiare, dei cambiamenti imprevedibili nei programmi, la necessità di adattarsi a sistemazioni alternative o a condividere pranzi e cene frugali con la gente del luogo, la possibilità di lavarsi solo con acqua gelida chinandosi sulle sponde di un fiume o, addirittura, aiutare a spingere un fuoristrada bloccato nelle fine sabbie di una pista dismessa. Insomma comporta un certo spirito d'adattamento e d'avventura e implica l'abbandonarsi ai ritmi blandi o frenetici della realtà di cui siamo ospiti. Per molti questo potrebbe essere, anzi è, un sacrificio, una contraddizione sull'idea stessa della vacanza. Per altri invece è l'essenza del viaggiare. Se poi questo incedere lento e imprevedibile vede come denominatore comune la fotografia allora anche le fatiche si sublimano e del viaggio non è più importante la meta ma l'andare. Un anonimo, guarda caso mongolo, ha scritto: partire, sperando di non arrivare mai. E’ questo il viaggio, infinito. Non importa dove e cosa, sono sufficienti dei pastori nomadi con le loro mandrie al pascolo, o la presenza di un filo di fumo che esce da una gher tra le valli immense del Gobi, o il semplice giocare di alcuni bambini sulle sponde di un fiume per accendere l'entusiasmo e il confronto con l'obbiettivo della macchina fotografica.

Edoardo Agresti

Questo procedere alternativo al “tutto organizzato”, favorisce indubbiamente un contatto più naturale con le genti, quell'Incontro che Anna Maspero ben descrive nel suo blog “Il Reporter”.  Gli incontri, quelli veri, sono rari e preziosi e spesso frutto del caso. Ma forse soltanto in apparenza fortuiti, perché per dar loro la possibilità di accadere, bisogna crearne i presupposti. Serve tempo, curiosità e disposizione d’animo... Anche se sono incontri effimeri, perché il viaggio è una dimensione transitoria, possono però essere momenti di grande “empatia”, in cui si entra in sintonia con il sentire altrui arrivando a una comprensione che prescinde dal giudizio.

Ecco perché questo viaggio in Mongolia è stato un viaggio vero e solo chi lo ha vissuto con questo spirito ha potuto cogliere, anche fotograficamente, le migliaia di sfaccettature che questo paese tiene gelosamente nascoste al turista del “tutto organizzato”.

Premessa doverosa e necessaria per capire la filosofia del mio viaggiare e fare workshop, e permettere ai futuri interessati di partire preparati e consapevoli.

Edoardo Agresti

Ma veniamo al viaggio. Cosa ci faccio io, amante delle genti, fotograficamente condizionato dall'esigenza di scattare la vita colta nella quotidianità di una famiglia, di una tribù o di una festa tradizionale, in un paese vasto cinque volte l'Italia con una popolazione di quasi quattro milioni di abitanti di cui oltre un milione e mezzo concentrati nella capitale Ulaan Bataar? Credo che la risposta sia nelle mie foto. La Mongolia infatti è solo in apparenza un territorio brullo e desertico che sembra offrire poco da fare e poco da vedere. È come l'entrare in una buia pieve romanica da un'assolata giornata estiva, inizialmente ti sembra tutto scuro, nero, poi gli occhi iniziano ad abituarsi all'ambiente e piano piano cominciano a delinearsi particolari, prima come ombre indistinte e poi come parti integranti della chiesa: una croce sopra altare, dei fiori in una nicchia, una serie di panche in legno, un confessionale, una vecchia signora che recita il rosario, una futura mamma che accende una candela davanti alla figura della Madonna. Così è la Mongolia. La prima impressione è di calarsi in un contenitore vuoto di vita, solo spazi immensi di steppe, valli infinite e montagne innevate. Poi però ti soffermi a guardare le foto che scorrono sul monitor del tuo computer e ti rendi conto che ogni giorno hai vissuto l'incontro con la vita mongola. Certo profondamente diversa nei ritmi e nella qualità da quella da cui sei venuto, ma in totale sintonia con le esigenze del territorio. La sera hai chiesto ospitalità per la notte a dei pastori nomadi tra le montagne dell'Altai che, con estrema gentilezza e cortesia, hanno messo a disposizione la propria gher offrendoti anche la condivisione della cena. Dormi in terra ma al tepore della stufa centrale che viene alimentata dallo sterco di yak lasciato seccare dal vento nella quasi totale mancanza di umidità degli alpeggi mongoli. All'alba vieni svegliato dalla pungente e tersa aria fredda di inizio inverno. Hai dormito vestito. Esci per una veloce toiletta e ti ritrovi in mezzo a mandrie di pecore e montoni, mentre il padrone di casa a cavallo arriva accompagnato da alcune “mucche tibetane” che verranno “preparate” per la mungitura. Davanti al recinto del bestiame quattro cammelli ti guardano sorpresi continuando nel loro curioso ruminare. La Mongolia si offre incontaminata all’occhio del viaggiatore, ecco quell'Incontro che ricerco nella mia fotografia.

Edoardo Agresti

"Come nella maggior parte della Mongolia, nel deserto c'erano poche strade ufficiali; viaggiare verso una determinata destinazione significava solo orientarsi e partire procedendo sempre dritto. Se dallo spazio un satellite avesse mappato la miriade di tracce e solchi isolati che attraversava la Mongolia, il risultato sarebbe stato somigliante a un piatto di spaghetti caduto sul pavimento". Scrive Clive Cussler nel sul libro uscito nel 2008 dal titolo “Mongolia”.

Edoardo Agresti

Ed è seguendo uno di questi spaghetti che inizi a salire verso un passo di oltre 3000 metri sul Gobi-Altai nel profondo sud ovest del paese. La sera precedente la notte aveva riservato uno spettacolo unico. Alzando gli occhi si aveva una visione tridimensionale della volta celeste. La via lattea, con la sua strada di stelle, attraversava il cielo come una sorta di arcobaleno notturno. Ogni tanto la scia luminosa di qualche meteorite graffiava il buio, mentre il “carro” maestava lì, poco sopra l'orizzonte. La sagoma scura e misteriosa della sacra “Montagna Madre” incorniciava le nostre spalle mentre un fuoco acceso con i rami secchi raccolti ci dava tepore e riscaldava il deserto in cui avevamo piantato le tende. Un vento freddo spazzava l'aria e il fumo del braciere giocava a rincorrere chi si era seduto in cerca di calore. Lo stesso vento che, al nostro risveglio, mescolandosi con il cobalto del cielo e il candore delle nuvole creava delle inconsuete quanto affascinanti pitture impressionistiche. Ma in montagna come al mare, nel deserto come nelle ampie vallate, tutto cambia velocemente e così l'azzurro si trasforma in grigio, la neve comincia a cadere. Prima lenta e cotonata, una sorta di romanzo rosa; poi forte, violenta e mista a ghiaccio, che richiama alla mente la paura di letture horror. La pista-spaghetto scompare, la visibilità è nulla, il procedere ormai senza un tracciato è impossibile. La neve si condensa sul parabrezza, l'autista scende a rimuoverla, ma il ghiaccio è già lì di nuovo al suo rientro alla guida. Ci fermiamo, in attesa di cosa non è ben chiaro. Qualcuno ha scritto: la Mongolia si merita e lascia scoprire il suo splendore piano piano, passo dopo passo secondo gli incontri e i capricci del suo clima. E dalla tormenta ecco una macchina, ecco un pulmino blu, ecco apparire da un muro bianco tre figure con la tipica fusciacca arancio legata al pesante pastrano che li avvolge. E nuovamente la vita si materializza improvvisa. Mi fido della tropicalizzazione della mia Nikon D3; scendo dall'auto lottando con il vento e con la neve che m'imbianca in un attimo. Scatto. Solo venti fotogrammi, prima che l'obiettivo inizi a ghiacciare, ma qualcosa d'interessante emerge dal monitor della camera. Ancora una volta la Mongolia, fuggitiva come la luce, si lascia scoprire.

Edoardo Agresti

"I lupi hanno temprato il carattere dei guerrieri mongoli e quello dei loro cavalli. Gli eserciti cinesi hanno sempre avuto un cospicuo reparto di cavalleria. Ma erano animali allevati in stalle e recinti, e noi che abbiamo lavorato in campagna sappiamo bene che cosa vuol dire. I cavalli cinesi non hanno mai visto un lupo, non combattono, non fanno nulla. Sono accuditi in tutto e per tutto dagli stallieri che li sfamano, li dissetano, assicurano loro la razione d'erba per la notte, li curano se si ammalano... e provvedono perfino all'accoppiamento". Da Jiang Rong nel suo libro “Il Totem del Lupo”

L'aereo sobbalza sulla pista in terra battuta. Il sole del tardo pomeriggio allunga le ombre mentre tinge di ocra le brulle vallate macchiate di laghi. Le Uaz fuoristrada alzano una polvere fine e una nebbia cremisi modella una scia come d'aereo in un terso e rarefatto cielo invernale. Una gher spunta come uno strano fungo bianco dal nulla. Solo un filo di fumo avverte della presenza di qualcuno al suo interno. Nessun albero. Ciuffi d'erba secca oscillano nel vento, esili, e sullo sfondo piccole colline caratterizzano un paesaggio quasi lunare. Delle mandrie di ovini si muovono lentamente verso un recinto, mentre un pastore a cavallo le raccoglie e le indirizza. Siamo appena arrivati nell'estremo ovest di quelle terre che un tempo furono di Gengis Khan, nella provincia di Bayan Ulghi. Queste valli ancora trasudano la storia di un impero ormai dissolto, quando i mongoli dominavano la gran parte del mondo allora conosciuto. Alcune delle tradizioni e della cultura di un tempo permangono ancora tra le genti come il girovagare dei nomadi nel seguire i pascoli stagionali. Anche le feste rimandano a un passato lontano: il Naadam e il Festival delle Aquile, due eventi vissuti oggi come allora.

Edoardo Agresti

Questa mattina, accompagnati da un vento che il sole non riesce a riscaldare, pronti con le macchine fotografiche al collo, ma inconsapevoli di quello che ci attende raggiungiamo una piccola valle circondata da dolci colline. Lì abbiamo un appuntamento con la storia; lì incontreremo i Kazakh esperti cavallerizzi avvolti in caldissimi cappotti con il tradizionale copri capo in seta tutto foderato di pelle di volpe, che hanno mantenuto e custodito nel tempo l’arte della falconeria.

Catturano le loro aquile da giovani, un solo esemplare per nido e sempre una femmina. L’aquila rimane con loro circa sette anni prima di ritrovare la libertà per permetterle di riprodursi. Anni durante i quali l’uomo e l’uccello dipendono l’uno dall’altro: l’aquila riceve il cibo dalle mani del Kazakh, in compenso il Kazakh recupera le prede dell’aquila, soprattutto volpi e marmotte, dalle quali ottiene la pelliccia che indossa o che vende. Tradizioni che si mantengono vive ancora oggi e che, nel Festival, si rinnovano con sfide e lotte che mettono alla prova l'abilità e la forza di giovani o esperti guerrieri.
A passo di carica, in simbiosi con il proprio cavallo, l'aquila troneggiante sul braccio, ecco che quest'angolo di steppa si anima e si riempie con decine e decine di uomini riccamente vestiti e orgogliosi della prova che li attende.
Siamo solo noi, nessun turista è stato invitato a questo evento. È una sorta di festa privata alla quale siamo stati invitati con estrema discrezione, ma forte ospitalità.
Non si riesce a descrivere a parole questo nuovo Incontro con la Mongolia. È talmente unico, emozionante, assolutamente fuori dagli schemi: un viaggiare nel viaggio. Solo la fotografia condensando in uno scatto centinaia di indegne parole, fermando la luce, scandendo i propri tempi di visione, isolando gli spazi dà modo di raccontare la festa come un riassunto di momenti. Solo la fotografia è in grado di descrivere l'attimo, di cogliere una frazione di secondo, di fermare ciò che l'occhio non riesce a fissare e le parole, almeno a me, non riescono a evidenziare. Quindi lascio alle immagini il compito di far condividere anche a chi, magari stancamente, mi sta leggendo quanto di magico e affascinante abbiamo avuto la fortuna di vivere.
Concludo prendendo nuovamente a prestito le parole di Anna Maspero dal suo Blog: Più che lo svolgersi della storia, viaggiando in Mongolia si percepisce il ripetersi del tempo, l’alternarsi del giorno con la notte, l’avvicendarsi dell’estate con l’inverno, l’arrivo della stagione degli accoppiamenti, poi della tosatura e delle nascite. […] Un paese dove è davvero andando che si fa la strada. Un paese spiazzante, ma capace di sedurre.

Edoardo Agresti

Il workshop: questo ultimo Nikon School Travel è stato particolarmente interessante anche dal punto di vista “didattico”. Abbiamo approfondito e analizzato il controluce per dare più enfasi e pathos a situazioni altrimenti troppo scontate. Abbiamo approfittato dei cieli ricchi di nuvole per sfruttare i grandangoli estremi sfruttando i grandi spazi e i paesaggi sconfinati. Abbiamo sperimentato, anche se non lo uso frequentemente, le 51 aree con messa a fuoco dinamica e continua 3D. Abbiamo visto come muoversi intorno al soggetto in un luogo chiuso sfruttando al meglio la luce ambiente. Infine abbiamo “studiato” il ritratto in esterni. Tutto questo è stato vissuto direttamente sul campo avendo la possibilità di seguirmi mentre mi muovevo intorno al soggetto e scattavo. Quando è stato possibile – dovevamo risparmiare energia perché non sempre c'era corrente per ricaricare e le batterie duravano molto meno del solito viste le basse temperature – ho visionato, commentato e corretto – utilizzando Capture NX2 - insieme a chi mi era “dietro” gli scatti della giornata. Ovviamente ognuno ha appreso in base alle proprie conoscenze, sia di tecnica che di sensibilità, e alla voglia di chiedere e imparare. Nei miei workshop non ci sono lezioni “classiche”. Non impongo a nessuno di seguirmi ma metto sempre a disposizione di tutti la mia esperienza e il mio piccolo sapere. Ringrazio tutti i miei compagni di viaggio e vi aspetto alla prossima avventura.

Fotografo NPS Edoardo Agresti per altre foto o per informazioni sui prossimi workshop e sulla sua attività si rimanda alla consultazione del sito internet www.edoardoagresti.it

 

 

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