Intervento

A cura di:

Viaggiare e fotografare?
Marco Aime

Oggi generalmente si va in un posto per vedere cose di cui si conosce già l'esistenza tramite libri, televisione o altri mezzi d'informazione, che spesso forniscono immagini volutamente forzate o parziali.



© Marco Aime

Lo sguardo del turista è costruito sulla base di segni in parte precostituiti. Spesso il turista si interessa di una cosa in riferimento a se stesso e in particolare al suo immaginario. Se vede due persone che si baciano a
Parigi è portato a pensare alla "Parigi romantica e senza tempo", così come si va in cerca del tipico comportamento italiano, del vero pub inglese o dell'autentico mercato africano.
La natura delle percezioni dei turisti è spesso collettiva e dipende da diverse proposte messe in atto da professionisti della comunicazione come fotografi, scrittori di viaggio e tour operator. Inoltre, a differenza del viaggiatore romantico, che cercava la solitudine per godere l'esperienza di un luogo nuovo, oggi la maggior parte dei turisti viaggia in gruppo. Lo sguardo collettivo, al contrario di quello solitario dei romantici, induce convivialità. L'esperienza vissuta in un luogo diventa pertanto un processo condiviso di consumo visuale. Un consumo che spesso si basa su elementi precodificati.



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Infatti l'immagine visiva dei luoghi, che dà forma e significato alla preparazione, e all'esperienza del viaggio, risulta spesso evocata da altre immagini particolari viste in precedenza. Ma il turista, una volta partito, da consumatore diventa anch'egli produttore di immagini a uso e consumo suo e altrui e queste immagini non solo danno forma al viaggio, nel senso che diventano la ragione per fermarsi a scattare fotografie, ma contribuiscono a perpetuare quel modello stereotipo che già aveva indotto al viaggio.
John Urry, nel suo splendido libro The Tourist Gaze, mette in evidenza come la fotografia sia stata fondamentale per la nascita di quello che lui chiama lo sguardo del turista. Fotografare è un modo per appropriarsi di un oggetto, o di uno spazio. Inoltre la fotografia sviluppa la documentarizzazione delle esperienze umane e accade che ogni persona fotografata diventi uguale alle altre. In molti casi queste persone perdono la loro "personalità" per diventare più simili a monumenti che a esseri umani e la loro cultura diventa "patrimonio culturale". Da fattore dinamico in continuo mutamento, la cultura assume così uno status burocratizzato, bloccato all'interno dei parametri scritti che la definiscono.



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Prendiamo il caso della regione dogon, in Mali. Dal 1989 la falaise di Bandiagara fa parte del patrimonio mondiale tutelato dall'Unesco con la denominazione di "Sanctuaire Naturel et Culturel de la Falaise de Bandiagara". La conseguente istituzionalizzazione del patrimonio culturale dogon per mano dell'Unesco, solitamente avvezza a porre il suo sigillo su monumenti piuttosto che su popolazioni umane, contribuisce in modo determinante a determinare una cristallizzazione della cultura dogon, trattandola come se fosse un bene archeologico da conservare immutato nel tempo. La falaise di Bandiagara è diventata, secondo la definizione fornita dall'Unesco stessa, un "paesaggio culturale". Per la precisione viene classificata come "paesaggio evolutivo", una definizione che comprende: 1) i paesaggi reliquie o fossili che testimoniano uno sviluppo anteriore di civilizzazione e recano le tracce di elementi ancora fortemente percettibili; 2) i paesaggi viventi, che conservano un ruolo sociale attivo associato al modo di vita tradizionale, in società contemporanee.



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Poiché l'azione dell'Unesco si traduce inevitabilmente (è uno dei fini che si propone) in un richiamo turistico e il turismo viene visto come una delle possibili risorse per questa regione colpita da un esodo continuo e costante, i dogon si trovano dunque a diventare, agli occhi dei turisti, "cosmogonisti" per forza e per convenienza e pertanto investono su questo aspetto della loro cultura. Ecco allora che letteratura e iconografia turistica propongono una determinata immagine dei dogon alla quale essi - o meglio quella parte di essi che viene a contatto con i turisti - si adeguano, proponendosi proprio come li si vuole dall'esterno e rischiando alla fine di creare un effetto "presepio vivente".
In un interessante saggio Carol Crawshaw e John Urry ripercorrono le teorie di Foucault relative alla creazione delle cliniche, le quali hanno istituzionalizzato, reso esclusivo e visibile il sapere medico, così come le prigioni rappresentano visivamente la dimensione ottico-spaziale del controllo del potere sull'individuo. Gli autori concludono che la pratica del turismo, in particolare quello "fotografico", può indurre a un processo equivalente a quello della sorveglianza di individui messi a forza dietro le sbarre. Le "sbarre" in questo caso possono essere una macchina fotografica, dei costumi etnici o dei luoghi particolarmente pittoreschi. In ogni caso si pensa che i visitatori abbiano occhi onniveggenti capaci di identificare le persone autentiche e i costumi locali.



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Lo sguardo del turista è costruito sui segni e il turismo stesso in fondo sviluppa la collezione di segni, ma quali? Essendo, come si è detto, il turista portato a valutare ogni cosa in riferimento al suo immaginario, accade che la sua estetica si proietti sul nativo. Questo è particolarmente nella pratica fotografica il cui fine non è solo quello di testimoniare che noi siamo davvero stati là, ma soprattutto quello di raccontare in che modo ci siamo stati. Il viaggiatore tende a costruire la sua memoria attraverso le foto che scatta. La fotografia è selettiva e riproduce la volontà di mostrare ad altri ciò che noi abbiamo voluto vedere.
Le proiezioni di diapositive al ritorno dei viaggi sono diventate ormai un rito a cui i viaggiatori e gli amici dei viaggiatori si sottopongono inevitabilmente.


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La fotografia non è solo un mezzo per rievocare esperienza vissute, ma consente soprattutto di dare vita a una nuova socialità, a nuove gerarchie. L'essere stati là fa parte di una sorta di processo di iniziazione e la foto è una sorta di prova, che legittima chi l'ha scattata nel suo status di viaggiatore. La riunione con gli amici e la proiezione di diapositive sono così diventate riunioni rituali e i racconti di commento alle immagini una nuova forma di affabulazione. Infatti, a casa le immagini si intrecciano con i racconti del viaggio ed è così che si produce la memoria.
Appurato il piacere che ci dà mostrare le nostre foto, ritorniamo per un istante ai terreni dove queste foto sono state scattate. E in particolare ai volti e ai corpi che abbiamo fissato in un rettangolino di 24 per 36 millimetri. Quante volte si è parlato, dialogato con quelli che contraddittoriamente vengono chiamati "soggetti" delle fotografie, mentre invece ne sono gli oggetti. Forse, e mi metto tra coloro che hanno scattato molte foto nei loro viaggi, ci accorgeremmo che in molti casi quelle persone non le abbiamo neppure salutate, non ne conosciamo il nome, figuriamoci la storia.
Ci si presenta in un villaggio, in un'abitazione, a una cerimonia nascosti dietro le nostre macchine fotografiche e si scatta. E ciò che vediamo lo pensiamo già in funzione dell'immagine che vorremmo trarne. Per questo scegliamo l'obbiettivo adatto e l'angolatura migliore. Là dietro, in fondo alla figura nel mirino, l'individuo inquadrato diventa un'immagine dell'individuo. Perde la sua personalità per acquistare quella che il fotografo intende assegnargli: mistico, esotico, pittoresco, selvaggio, ma soprattutto statico. Infatti, il turista, sostiene Todorov, preferisce l'immagine al linguaggio, in quanto l'apparecchio fotografico gli permette di oggettivare e immortalare la sua collezione di monumenti.



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Questo approccio fotografico finisce per spersonalizzare inevitabilmente il rapporto tra fotografo e fotografato, innescando spesso dinamiche di tipo commerciale (i nativi che chiedono soldi per essere fotografati) che suscitano talvolta sentimenti di indignazione nei turisti.
Fotografare qualcuno o qualcosa significa reputarlo interessante, magari bello, non "normale". Ecco il problema di fondo: scegliendo un individuo come soggetto della nostra fotografia lo allontaniamo inevitabilmente da noi e lo trasformiamo in simbolo. Ne esaltiamo le differenze, stendendo un velo sulle similitudini. Più è diverso, più ci sembra interessante. Creando questo "altro da noi", il nostro nativo diventa l'icona di un evento che concentra sensazioni e bisogni nostri, perlopiù estranei al suo essere.
Un proverbio africano dice che lo straniero vede solo ciò che già conosce. Affermazione quanto mai vera nel caso di molti turisti-fotografi. Quante volte, nelle proiezioni di amici reduci da un viaggio in un paese "esotico", abbiamo visto immagini di gente stracciata, vestita all'occidentale o seduta davanti alla televisione intenta a guardare onnipresenti telenovelas? Le fotografie che vediamo (e scattiamo) assomigliano molto di più a quelle viste sui cataloghi che abbiamo sfogliato prima di partire. Per dirla con Crawshaw e Urry, il turismo induce memoria e in un certo modo si appropria della memoria di altri. Così molte delle immagini che consumiamo visivamente sono in realtà il ricordo fissato nella memoria di altri che successivamente viene consumato da noi.



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