Inviati

A cura di:

Perù, scatti dal passato
Pasquale Sorrentino

Andare a caccia delle mummie Inca e delle vestigia di culture precedenti che si sono succedute in Perù, da 5000 anni fa ad oggi, ha rappresentato una sfida affascinante che volevamo vincere a tutti i costi. E, con questo spirito che abbiamo viaggiato per giorni, macinando chilometri, da nord a sud, da est ad ovest. Il paese sudamericano ci appariva a tratti immenso ma sempre bellissimo per l'estrema varietà dei suoi habitat naturali. La costa affacciata sul Pacifico, dove si sviluppò la civiltà mochica; la cordigliera andina, disseminata di strade, terrazze, per l'agricoltura ed edifici in pietra appartenuti ai mitici Figli del Sole incaici; la selva amazzonica, in cui proliferarono i temuti Chachapoya e la valle del rio Supe, 200 km a nord-est di Lima, dove oggi c'è solo deserto ma in un tempo assai lontano sorgeva la mitica Caral, ciudad sagrada di un popolo sconosciuto.

Ogni evidenza di carattere archeologico sembrava idealmente racchiusa nel più preziosi degli scrigni, lo scrigno che la stessa madre Terra (la Pachamama cara ai peruviani) aveva deciso di assegnargli nel corso dei secoli.
Spesso viaggiavamo su strade così isolate che gli unici rumori che avvertivamo erano quelli prodotti dallo sferragliamento degli oltre 150 chili di attrezzatura fotografica che facevano capolino dal bagagliaio della nostra auto. Già, il bagagliaio di un volitivo ma inadeguato veicolo giapponese (non un fuoristrada, badate) che a ogni sobbalzo minacciava di lasciarci a terra.
"Non preoccupatevi" ci urlava esaltato Jorge, prode autista-meccanico al nostro seguito. Noi non ci preoccupavamo. Almeno fino a quando abbiamo scoperto che tanta sicumera gli derivava non dal fatto che secondo lui l'auto avrebbe effettivamente retto all'urto degli sterrati, ma dal fatto che quell'auto non apparteneva a lui ma ad un suo amico che gliela aveva prestata. Viva il pragmatismo dei peruviani.

Spesso ci fermavamo per alcuni giorni, anche 3 o 4, se ci sembrava che il sito visitato meritasse maggiori attenzioni in termini fotografici. Caral era indubbiamente tra questi. Le condizioni di lavoro erano estreme, dunque decisamente stimolanti.
Parliamo di pieno deserto (l'abitato più vicino era a 50 chilometri, andando verso l'autostrada Panamericana), la notte si trascorreva a cielo aperto, dormendo avvolti nei sacchi a pelo come farfalle nei bozzoli. Soprattutto non c'era niente da mangiare o da bere che non fosse ciò che ci si era portati dietro di propria iniziativa.

Gli archeologi, un pugno di giovani dell'Università San Marcos di Lima, erano tutti più che preparati a quella vita, noi no. Perciò ci dovemmo affidare alle amorevoli cure della señora Maximiliana, una matrona india dai modi gentili, nonché inquilina dell'unica casa della zona. La señora ci preparava ogni sera un piattone di arroz (riso) con dentro un groviglio indistinto di pezzetti di carne avvinghiati a ossa di piccola taglia. Si trattava di volatili? Difficile dirlo. Era cuy (il locale porcellino d'India, specialità molto in voga in Perù)? Chissà, a noi pareva che gli unici animali di piccole dimensioni della casa fossero i gatti e giorno dopo giorno li vedevamo pericolosamente diminuire di numero.

Le giornate erano scivolate via veloci e noi eravamo più che soddisfatti di quel che avevamo visto e fotografato, ci eravamo trovati al cospetto della città più antica delle Americhe (2500 a.C., più o meno) coeva alle grandi capitali delle civiltà medio-orientali e di quella Egizia.
La foto più bella, quella che aveva fissato in un tripudio di luce infuocata la suggestione notturna offerta dall'Anfiteatro, avrebbe poi guadagnato gli onori della home page del nostro sito internet (www.greatdiscovery.org) oltre che la pubblicazione su riviste di mezzo mondo, dagli Stati Uniti alla Corea del Sud. Tanta notorietà se l'è meritata, visto quanto è costata in termini di tempo e sforzi.

Andando verso sud, verso Lima e poi Cuzco, ci saremmo inoltrati nel cuore dell'Impero Inca, un impero all'apice del suo splendore, quando venne annientato dal conquistador spagnolo Pizarro nella seconda metà del 1500. Lì ci attendevano le stupefacenti mummie di cui tutto il mondo parla. Degli ultimi ritrovamenti, però, non sapeva ancora niente nessuno. Grazie all'intuito e alla fortuna del professor Guillermo Cock erano emerse dalla terra migliaia di persone sepolte 500 anni fa. E così Puruchuco-Huaquerones, fino a ieri anonimo asentamiento humano (baraccopoli) alle porte di Lima, sarebbe passata alla storia come la Valle de las momias.

A nord, invece, avremmo fatto la conoscenza dei Moche, popolo guerriero vissuto tra il I secolo a.C. e l'VIII d.C.. Il posto esatto verso cui eravamo diretti era nelle vicinanze della odierna cittadina di Trujillo (400 km da Lima), lì dove sorgono ancora due degli edifici più importanti di quella cultura: le Huacas del Sol y de la Luna.

La Huaca del Sol era il centro del potere amministrativo e politico della comunità. La Huaca de la Luna era invece un luogo sacro, dove si praticava il culto degli dei e dove si svolgevano efferati sacrifici umani.
Al mattino ci era sembrato un bel posto, ma di notte. Un giorno lavorammo ininterrottamente per quindici ore, arrivammo alla Huaca de la Luna alle nove del mattino e ne uscimmo intorno alla mezzanotte. Non ci ponemmo mai il problema del tempo che passava, lavorammo e basta. Ci sembrava che tutto andasse fotografato e testimoniato che tutto lì dentro avesse una coerenza ancestrale, da non infrangere in alcun modo. Al calar del Sole i restauratori erano andati via tutti e da tempo non c'era più neanche l'ombra dei numerosi turisti europei ed americani che durante il giorno ci avevano visto correre su è giù con cavalletti, luci, cavi e taccuino. Quando rimanemmo soli, al cospetto dei basso-rilievi raffiguranti il Dio decapitatore, illuminati unicamente dai nostri fari e con un buio pesto tutt'intorno, riuscimmo a percepire la vera magia e la sacralità di quel luogo. Nonostante sia stata teatro di centinaia di cruente uccisioni la Huaca de la Luna continua ad esercitare un fascino perverso su chi si avventura nei suoi meandri, anche noi ne fummo vittima.
Il vento fresco della notte che filtrava da una malandata porta di legno emetteva dei suoni tenui e regolari che lo facevano somigliare sempre più ad una delle ossessive litanie mormorate dai sacerdoti Moche in occasione dei sacrifici. Che qualcuno, risvegliatosi da un lungo sonno, avesse qualche strana idea sul nostro conto?

Chi è
Nato a Napoli nel 1970, Pasquale Sorrentino inizia la sua carriera fotografica associando la passione dei viaggi con la fotografia realizzando vari reportage turistici.
Le sue prime immagini sono state pubblicate su guide della Edt (Lonely Planet) e del Touring Club Italiano.
Si é specializzato in fotografia scientifica e archeologica grazie alla collaborazione con l'agenzia Eurelios di Parigi ed ha iniziato a realizzare numerosi reportage in Italia ed all'estero.
Collabora con svariate riviste italiane quali: "Il Venerdí di Repubblica", "Focus", "Quark", "Le Scienze", "La Macchina del Tempo", "Newton", "Panorama" ed estere: "Geo", "Focus (UK)", "Archaeology" ,"Sciences et Avenir", "Science et vie", "National Geographic", "Illustreret Videnskab".
Quest'anno ha vinto il primo premio categoria "news" selezione nazionale del Fujifilm European Press Photo Awards.
Lavora spesso in tandem con Marco Merola, giornalista specializzato in giornalismo scientifico ed archeologico, con il quale ha realizzato negli ultimi anni svariati reportage in Italia ed in varie parti del mondo, come quello in Perù evocato sopra.

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