Confronti

A cura di:

Fotografia e Letteruatura
Giuseppe Marcenaro


Maxime Du Camp, Abu Simbel. Primo colosso del tempio di Ramesse II, 29 marzo 1850

L'hanno corteggiata e odiata. Il rapporto tra i letterati e la fotografia non è mai stato facile. E questo fin dal 1839, da quando, grazie alla controversa invenzione di Daguerre, il primo "specchio dotato di memoria", fu aggiunto un altro mistero al mondo, "quel metodo" capace di duplicare il mondo, "quello stile" che, non ponendosi assolutamente il problema di "scrivere", racconta il mondo senza l'uso della parola.

La fotografia crea un altro da sé, un corpo estraneo che rende ignoto a se stesso ogni sospetto: sia esso persona, oggetto, paesaggio. Con la sua libertà dall'umano, la fotografia reinventa la realtà, proprio come uno scrittore evoca uno scenario che si vede quale forma dell'immaginario del suo autore.



Lewis Carroll, Alice Pleasance Liddell

La macchina fotografica potrebbe essere un letterato improprio perché produce punti di vista, metafore, digressioni sul reale? Attraverso una serie di incursioni di grandi scrittori nel mondo della fotografia, lo scrittore e critico d'arte Giuseppe Marcenaro - nel suo appena uscito Fotografia come letteratura (Bruno Mondadori Editore, pp. 256, 21,00 euro) - individua una sotterranea lotta tra le due creatività: quella dell'artista che impressiona la pagina e quella, ben più misteriosa e complessa, della macchina fotografica che, duplicando il mondo, pretende di imporsi come una autentica forma alternativa alla scrittura.

Nadar, Maxime Du Camp, Gustave Flaubert, Charles Baudelaire, Arthur Rimbaud, Lewis Carroll, Emile Zola, Henry James, Roland Barthes, scrittori e fotografi che dialogano con le due forme espressive.

 

 



Nadar, Charles Baudelaire, 1854 (?)

Di seguito, tratte dall'ultimo capitolo del libro, riportiamo le riflessioni dell'autore su due immagini di Alfred Noack e Jean-Eugène-Auguste Atget.

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Alfred Noack, Senza titolo, 1880 ca. (p.168)
L'enunciazione dei sentimenti come rapporto fittizio. Trovo l'immagine dolce e tremenda: un'intesa perfetta tra le due figure di primo piano. Posano evidentemente per la scena voluta dal foto-grafo. I due personaggi di primo piano mi piace pensarli suocera e nuora, madre e figlia, forse zia e nipote. Nella fotografia non svelano il loro rapporto. Forse si sono incontrate per la prima volta in occasione della fotografia e non sono parenti. Eppure tra loro sembra sussistere un flusso affettivo. Come se esprimessero un'intesa. Le unisce forse un segreto in comune che il fotografo ha reso palese. Più semplicemente è stata la volontà della camera a stabilire un contatto. Sembrano nutrite da una complicità che esclude l'altra presenza, quella in secondo piano: figura che mi affascina oltremodo con quel suo sguardo torpido, perduto, incapace di comprendere la situazione. Semplicemente guarda quel che in questo momento, osservando la fotografia, ognuno desidererebbe vedere, cioè ciò che sta alle nostre spalle. Il suo sguardo esplora il concreto, quel che ha di fronte nel momento della posa. Noi il nulla. Dentro alla fotografia sta quest'illusione, neppure cercata da chi ha composto la scena nella sua più voluta casualità, che esprime storie mai esistite. Un altro geroglifico da decrittare nella sua insolubilità, un mistero da affidare al catalogo degli arcani irrisolti perché illeggibili. Nell'attimo del loro coagulo non prospettano nulla, neppure un'illusoria e possibile ipotesi di soluzione.

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Jean-Eugène-Auguste Atget, Beauvais, Vicolo Nicolas-Godin, 1904. (p. 170)
Il silenzio. Le pagine dei libri sono fatte di scrittura silenziosa. Le lettere degli alfabeti che le compongono sono segni inanimati cui soltanto la nostra partecipazione riesce a dare un senso. I libri sono costruiti da alfabeti convenzionali per comunicare incomunicabili incroci e passabili messaggi. Come in fotografia, con un codice privato. Atget, nel suo mondo vuoto, fatto di paesaggi muti, non racconta. Si è limitato ad additare. I paesaggi di Atget non sono belli, non sono vedute, ma il rovescio della veduta. Simile a un testo scritto vanno risvegliati dal “lettore” altrimenti resterebbero consegnati al loro eterno silenzio. Atget ricorda certi narratori che in più e più pagine non dicono nulla. Si abbandonano al silenzio della scrittura. Atget non trionfa mai sulla vita, corteggia invece l'effetto lapide. Come in questa immagine di Beauvais dove si accetta l'ineffabile: un destino oltre il quale prosegue l'inesorabile
caduta verso la linea piatta. Con questo funebre distacco, contemplato in indifferente appartenenza, il vicolo Nicolas-Godin prelude alla pagina bianca vagheggiata da Mallarmé. L'inutilità della descrizione, tanto in fotografia quanto in letteratura, porta oltre la non percezione, il non sguardo dopo la morte, lo stesso disturbo di non esserci.

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