Intervista

A cura di: Antonio Politano


Teju Cole

Quel che rimane nell'ombra



In occasione dell'uscita di Punto d'ombra, il primo libro che mette insieme suoi testi e scatti, abbiamo incontrato Teju Cole, scrittore, fotografo e critico fotografico per The New York Times Magazine. Un diario visivo di diversi viaggi e peregrinazioni per il mondo dell'autore americano di origini nigeriane, rivelatosi con il suo primo romanzo, Città aperta, dedicato a New York. Un progetto pensato e realizzato per la collana In parole di Contrasto, (166 pp., 80 fotografie a colori, formato 16x22,4 cm, 22 euro). Immagini che scatta e realizza quotidianamente, accompagnate da brevi e poetici racconti, ricordi, storie, meditazioni. Perché, come condensa Teju Cole, «secondo una logica pertinente, ogni fotografia si trova nell'anticamera della parola».




Muottas Muragl, Svizzera, luglio 2015. © 2016, Teju Cole

Inizio con qualcosa di personale. Da fotografo e giornalista, spesso mi domando quale sia il rapporto tra parola e immagine e se esista un primato. Anche tu, da scrittore e fotografo, sei molto interessato a questa relazione.

Si tratta di un interrogativo molto antico, ma è ancora molto interessante e fresco. È vecchio quanto l'antichità, verso la quale ci volgiamo indietro. C’è tutta una tradizione dell'emphasis, cioè del tentativo di trovare le parole giuste per una descrizione perfetta dell'immagine quasi si potesse dipingere con le parole. Il fatto che ci si trovi nel 2016, e che questa domanda risvegli ancora interesse, è la cosa più affascinante per me. E, per esempio, quando è uscito questo mio ultimo libro - Punto d'ombra - gran parte delle conversazioni che ho avuto con gli editori, da una parte, e con i giornalisti che mi hanno intervistato e con altre persone, dall'altra, ha ruotato intorno a questa tema. In fondo, non disponiamo nemmeno di un termine nelle nostre lingue per descrivere questa messa in relazione. Perché, che cos'è questo mio libro? Un libro fotografico? No. Un libro di poesia? No. E nemmeno un trattato di poesia. È un libro di memorie? No. Dentro questo antichissimo quesito che ci interroga c'è ancora qualcosa di molto fresco.




Punto d'ombra, Teju Cole. 166 pagine; 107 fotografie a colori; traduzione di Gioia Guerzoni. Contrasto


Ma la tua risposta, se c’è, qual è?

La risposta io la ricavo dall'analogia, nel senso che vado a vedermi quei lavori, quelle opere che mi hanno ispirato e anche commosso. Che mi sembra facciano delle cose un po' simili a quelle che cerco di fare io. Allora posso, per esempio, pensare alla poetessa americana Anne Carson e al suo tipo di lavoro che si rifà anche alla fisica classica greca e romana. Un lavoro di poesia che usa anche immagini e sostanzialmente si ritrae a qualsiasi tipo di incasellamento di genere. Penso ai film di Chris Marker, ai documentari, penso al documentario di Louis Malle sull'India. Hanno una qualità speciale quei film che hanno un buon voice over, quel commento parlato che si sovrappone alle immagini. Perché allora abbiamo due binari narrativi, quello dell'immagine, quello del film, e quello della narrazione fatta dal voice over, che vanno insieme ma stanno separati. Questo genere di opere sono combinazioni di forme diverse, per me funzionano quando sono poetiche. Questa è la famiglia della quale aspiro a far parte.


New York, maggio 2015. © 2016, Teju Cole


È sempre difficile autodefinirsi, però c’è un modo in cui definisci la tua fotografia? Qualcuno ha parlato, nel tuo caso, di fotografia di paesaggio. Non ci sono quasi mai persone, alcune sono di spalle, il fattore umano non è decisivo per te?

È più una questione di sensibilità. Se devo pensare alla famiglia di appartenenza o a opere che vanno nella direzione di cui sto parlando, penso a quattro fotografi italiani. Tutti, credo, del nord dell'Italia. Se si guarda l’insieme delle loro opere o le tendenze che esprimono, ci si fa un’idea di ciò che cerco di fare io. E questi quattro nomi sono Luigi Ghirri, Guido Guidi, Gabriele Basilico, Giovanni Chiaromonte. Secondo me funzionano tutti secondo uno stesso tipo di modalità, stiamo parlando di un tipo di lavoro che è un certo modo di guardare ai luoghi, che è un modo sottile e tranquillo, spesso senza persone. Benché siano tutti grandi fotografi, forse il leader da questo punto di vista è Ghirri, in Chiaromonte a volte ci sono anche delle persone, spesso prese di spalle, ma non sempre. È un modo di indagare degli angoli molto tranquilli, un modo di guardare, non so, alla pietra, alla ghiaia. Ecco queste sono le forme di fotografia alle quali mi sento vicino. Se mi devo iscrivere a una scuola fotografica è quella del nord dell’Italia, dell’Emilia Romagna.




Brienzersee, Svizzera, giugno 2014. © 2016, Teju Cole


 

Se poi devo guardare altrove, penso a Joachim Brohm e a Lee Friedlander che per me ha significato molto. Ma siamo e rimaniamo sul terreno dell’analogia, perché nel momento in cui propongo una definizione di quello che faccio, poi esco un pomeriggio con la macchina fotografica e scatto una cosa che non c’entra niente. Voglio solo aggiungere qualche altro nome, come Stephen Shore naturalmente. Quello che tutti questi fotografi hanno in comune è la sensibilità verso la periferia architettonica, non solo la periferia stile Robert Frank, e cioè la periferia, le persone, la depressione dei margini, ma specificatamente l'architettura delle periferie, della periferia delle città. Mi viene in mente il libro di Guido Guidi in cui in una pagina c’è la foto di un angolo, solo cemento e poi le pietre sul terreno, ma ha una tale forza per l’attenzione che viene data a quelle pietre, alla luce. È come se qualcuno avesse preso un Fra' Angelico e ne avesse tolto le figure e rimane questa luce calma sulle superfici. Tutto questo mi attira moltissimo.



 


Queens, maggio 2015. © 2016, Teju Cole


 

A proposito del tuo libro, perché la parola ombra compare nel titolo?

Anche se l'ho scritto in inglese, la prima edizione è quella che abbiamo curato in italiano insieme ad Alessandra Mauro e Roberto Koch di Contrasto. In inglese avevo scelto Blind Spot, la "macchia cieca", che è un dato della fisiologia. Ma mi sono chiesto come suonava in italiano e sono stati loro a propormi Punto d'ombra, sostenendo che funzionava meglio come titolo in italiano. Ha incontrato il mio gradimento perché mi piace molto il significato di questa espressione. Non è descrittiva di quello che faccio, ma è molto legata a quello che faccio perché mi occupo di quella regione dove c'è qualcosa che viene oscurato, che manca. Io mi pongo il problema di cosa è che manca, cosa è che qui e non è facile da vedere. Il titolo mi è piaciuto così tanto che stiamo anche pensando di darlo all’edizione in inglese, Shadow's Point.



 


Milano, luglio 2015. © 2016, Teju Cole


 

Un'ultima domanda: cosa rappresenta per te la narrazione in viaggio, come credo sia quella che fai?

Qualche anno fa mi è stato chiesto che tipo di viaggiatore fossi. Io ho risposto, a quell'epoca: sono un viaggiatore infelice, perché ho un talento per andare nei luoghi e trovare cose tristi. Recentemente ho realizzato che questa non è proprio una descrizione corretta di me stesso. Sono semplicemente molto sensibile alle altre cose che accadono in quel posto. Sono interessato solo un po' a quello che dicono gli enti di soggiorno e turismo. Quello a cui sono davvero interessato, voglio essere molto chiaro su questo, non è la grande notizia sul posto. Quella la lascio agli studiosi e agli antropologi. Quello che mi interessa sono le piccole storie di un posto che però mi posso portare via, che diventano mie quando le porto via.



 


Lagos, dicembre 2014. © 2016, Teju Cole


 

La grande storia oggi a Roma è un nuovo sindaco, una giovane donna, la prima in tremila anni, del partito di Grillo, questa è la tipica storia che lascio al corrispondente americano. Per me è più interessante il cortile in cui ci troviamo, disegnato da Borromini, o essere entrato in molti negozi e ristoranti dove ho visto a lavoro degli africani. Non ho incontrato nessuno che si riferisce alla grande storia dei rifugiati che vengono in Italia, ma ho incrociato la piccola storia che mi fa pensare in avanti, a cosa sarà quell’uomo tra venticinque anni, come si svilupperà l’integrazione tra questi immigrati e i romani. Sono storie secondarie, laterali, che però io mi posso portare a casa da un posto. Penso che quando si viaggia, uno viaggia come individuo con i propri occhi e le proprie orecchie. Sperimenti posti e prendi qualcosa di tuo, non un dépliant turistico. Qualcosa di personale, specifico, a volte molto personale. E non a caso ho parlato di Borromini, non di Bernini, il secondo tra i due, quello meno famoso e celebrato. Quello rimasto nell'ombra.



 


Capri, giugno 2015. © 2016, Teju Cole

Chi è Teju Cole


 

Teju Cole è l'autore di Città Aperta e Ogni giorno è per il ladro (pubblicati in Italia da Einaudi) ed è il critico fotografico per The New York Times Magazine. Per il suo lavoro letterario ha vinto, tra le altre cose, il premio PEN/Hemingway Prize, il Windham Campbell, l’Internationaler Literaturpreis. Nato negli USA da genitori nigeriani, Teju Cole ha passato la sua infanzia in Nigeria per tornare a diciassette anni negli Stati Uniti, dove tuttora vive, a New York.

www.tejucole.com




 

 

Metodi di pagamento: