Inviati

Strade Parallele

Filippo Trojano

 

Nel 2010 un nuovo amore mi ha portato a conoscere e frequentare quel fazzoletto di terra tra il mare e le montagne chiamato “pianura Pontina”, che meno di cento anni fa era ancora una grande palude. Così negli ultimi tre anni, in quel tratto di strada che va da Latina a Sabaudia, mi è capitato spesso di incrociare migranti indiani in bicicletta a tutte le ore del giorno e della notte. La loro calma, il lento ritmo della pedalata mi facevano sempre pensare a qualcosa di nettamente diverso rispetto al ritmo di tutto ciò che attorno a loro in quel momento si muoveva. Le mie sensazioni e la mia crisi aumentavano quando capitava di incontrarli, sempre in bicicletta, sotto terribili temporali. Completamente zuppi continuavano con costanza il loro viaggio.
 


© Filippo Trojano

Allora ho via via diminuito la mia velocità per poterli osservare meglio e accorgermi che ognuno di loro, mentre ci incrociavamo, cercava di trovare i miei occhi. Questa è stata la spinta profonda ad iniziare il progetto. Per poter cogliere uno sguardo ho dovuto rallentare fino al punto di dover scendere dall'auto e camminare, per poi fermarmi; affascinato dalla curva di una strada, dal colore di un campo, dalle pieghe di una duna di sabbia o dai mattoni di una casa colonica. Una volta lì ho costruito il mio teatro e ho aspettato. Quando poi “l'attore” è entrato in scena ho spostato il fuoco dallo spazio infinito al volto.
 


© Filippo Trojano

Sono partito dal punto in cui la maggior parte degli indiani vive, in quella zona chiamata “Bella Farnia”. Quando sono arrivato, un sabato di fine giugno, era pieno di bambini che giocavano nei cortili e nelle stradine e in poco tempo ho fatto amicizia con loro, passando l'intera giornata a giocare senza nemmeno scattare una foto. Sono tornato alcuni giorni dopo e ho deciso di organizzare un corso di fotografia per quei bambini; succedeva spesso che poi mi facevano compagnia mentre realizzavo i primi ritratti. In breve tempo alcuni sono diventati preziosi assistenti e traduttori ed è a loro che questo progetto è dedicato. Fin da subito ho iniziato a confrontarmi con lo stampatore Davide Di Gianni e il suo collaboratore Fabio Barile, con i quali lavoro da anni e che sanno trovare le giuste chiavi cromatiche al mio lavoro e mi aiutano spesso a capire quando è il momento di mettere virgole e punti. Così la fase di scatto si è conclusa alla fine dell'estate, dopo tre mesi di lavoro.
 


© Filippo Trojano

Il progetto poi è stato presentato ai Festival della fotografia di Roma e Reggio Emilia. Dopo queste occasioni ho iniziato a sentire l'esigenza di pensare a un libro che contenesse tutti questi ritratti e così ho inventato una forma di co-produzione dal basso del progetto chiamata “Adotta una foto”. Attraverso l'acquisto delle immagini tramite la pagina Facebook di “Strade Parallele” ed il mio sito, la gente fa una donazione che serve per realizzare altre stampe per le mostre e per il libro che stiamo cercando di produrre. In questo momento stiamo proprio lavorando a una forma di crowdfounding che permetta anche di fare donazioni più piccole attraverso l'acquisto di foto in formati ridotti.
 


© Filippo Trojano

Strade Parallele racconta così di due fenomeni migratori avvenuti a distanza di 80 anni l'uno dall'altro attraverso l'uso della bicicletta. Circa 200 ritratti, tutti scattati in pellicola medio formato con una Pentax 67 e un solo obiettivo. Decine di volti incontrati, storie e traiettorie interrotte per pochi istanti nel tentativo di tirare fuori da ognuno l'essenza di un viaggio, a volte breve, altre lungo ottant'anni. Strade parallele, le loro, in faccia alle quali ho portato la mia; punto di cucitura nel tessuto del tempo ogni singola fotografia.
 


© Filippo Trojano

I primi migranti arrivarono per la bonifica durante il fascismo. I secondi negli ultimi vent'anni dal Punjab. Quelle stesse terre che un tempo furono lavorate da persone che arrivarono dal Veneto, il Friuli e le Marche - per poi essere riscattate da questi negli anni - vedono ora lavorare migliaia di migranti venuti dall'India. Quegli indiani che proprio oggi sono su tutti i giornali italiani per ragioni di sfruttamento (report internazionale di Amnesty International 2013) o a causa dell'alta mortalità dovuta ad incidenti stradali lungo la via litoranea sprovvista di pista ciclabile.
 


© Filippo Trojano

Con questo progetto non ho scelto di entrare direttamente nelle storie delle singole persone, ma ho voluto lasciare allo spettatore il compito di immaginare un vissuto, una storia. Da un lato quindi  la ricerca di similitudini e linee comuni, dall'altro nette differenze in una mescolanza continua. La bicicletta: un minimo comune denominatore, ma anche una scusa, forse un pretesto. Al tempo stesso ho voluto anche parlare di un territorio attraverso i volti delle genti che lo abitano; dove sono le rughe, i sorrisi, gli occhi, i colori dei vestiti a essere il principale paesaggio. La via litoranea e il lungo mare delimitano lo spazio nel quale il progetto è stato fatto e, proprio perché parallele, rappresentano le due comunità che continuano a vivere le loro vite ancora troppo separate.
 


© Filippo Trojano

Qualcuno dice che le due strade non si incontreranno mai, perché resteranno parallele fino all'infinito. Qualcun altro vuole invece che proprio all'infinito si possano toccare. Io questo non lo so, non conosco il tempo che ci vorrà. Ma è invece proprio attraverso questa “collezione di volti”, queste vite ad impatto zero e maggiormente in sintonia con l'ambiente, che ho cercato di trovare una bellezza di fondo. Non ho voluto usare foto d'epoca per raccontare di quel tempo vissuto da alcune delle persone che ho fotografato. Ho cercato invece le tracce del passato nei volti di quelli che avevano vissuto quell'esperienza di migrazione, di incertezza, di scoperta di un nuovo luogo, una nuova lingua; ho cercato nei paesaggi, nella terra, nelle architetture. Nelle biciclette, nei pedali, nelle gomme leggere.
 


© Filippo Trojano

Ogni volta di fronte ad un volto, che mi incuriosiva e che inquadravo nel mio pozzetto, senza parlare gli ho chiesto di raccontarmi di sé, di portarmi nel suo tempo, nelle sue visioni. Ho cercato luoghi e persone precisi. Ho cercato storie, tracce di vita. Sempre alla ricerca di un mistero dentro le cose che ho inquadrato, con la speranza e la voglia di scoprirne di nuovi. Come intento a pescare sulla riva di un fiume, ho aspettato che le persone passassero vicino alla mia Pentax. E devo ammettere che una macchina medio formato, a pellicola, su un pesante cavalletto è un'ottima esca anche per pesci molto furbi e diffidenti. Chiedergli di posare è stato quasi sempre qualcosa che li ha sorpresi e divertiti e la presenza della loro bicicletta diventava una sorta di scudo, una protezione iniziale che dava loro sicurezza davanti all'obiettivo. Ma quasi sempre poi, in breve tempo diventavano nudi. O meglio diventavamo nudi. Alla “cieca” era come se gli dicessi e mi dicessi: fidati di quello che succede!
 


© Filippo Trojano

Se si rallenta il passo e si entra nelle storie della gente di questa terra, ci si accorge di un cambiamento profondo che sta avvenendo e che stanno offrendo, da un lato, queste persone venute dall'India che faticano a far conoscere alla bocca una lingua nuova; che tengono nel silenzio “i sentieri costretti in un palmo di mano” e “i segreti che fanno paura”. Dall'altro quei pochi ancora in vita che un tempo migrarono dall'Italia del nord e che racchiudono un mondo di storie nei loro volti silenziosi. Poi ancora i loro figli e i loro nipoti che non riescono a tenere il filo della storia e, giorno dopo giorno, rendono il vissuto dei primi che arrivarono fermo ricordo senza tempo. Allora raccontare di tutte queste piccole forme di resistenza quotidiana significa sperare che sulla via litoranea si costruisca finalmente una pista davvero ciclabile; che il mare, le due silenziose ruote, lo sguardo di una fotografia, rendano possibile quello che gli esseri umani, a volte, non sanno fare: parlarsi.
 


© Filippo Trojano

p.s.

Ho iniziato a praticare la fotografia da bambino e poi alle scuole medie con un insegnante di educazione tecnica Ache era fotografo, abbiamo realizzato fotografie e piccoli progetti video. Ma la cosa più bella è che quando ero in prima questo professore si era innamorato dell'insegnante di italiano e così durante le ore di compresenza tra le due materie loro ci facevano fare progetti che intrecciavano fotografia e poesia. Questa è stata per tre anni la mia prima e principale formazione che ancora oggi in molte occasioni mi mostra quelle prime piccole radici. Contemporaneamente è cresciuta in quegli anni anche un'altra passione forse ancora più grande, quella per il cinema.
 


© Filippo Trojano

Ed è proprio nel tentativo di unire questi due modi espressivi che ho strutturato il mio approccio visivo. Poi al termine delle scuole superiori la conoscenza con lo stampatore e fotografo Andrea Calabresi è stata un ulteriore passaggio fondamentale nel mio percorso. Proprio in quel periodo chiudevo un'esperienza di tre anni in una compagnia di teatro dove facevo l'attore e grazie al confronto con Calabresi ho potuto conoscere ed approfondire sia molto dell'arte fotografica internazionale che della critica e storia della fotografia. Prima sono stato cliente del suo laboratorio, poi amico e assistente ed infine collega sia nella didattica che nei progetti personali. Grazie a lui ho conosciuto il fotografo Arno Rafael Minkkinenn, di cui sono stato allievo al TPW nel 2001 e questo incontro è stato un altro pilastro nella mia ricerca visiva. Nel 2002 c'è stato poi un intenso e complesso stage con la compagnia teatrale di Cesena “Societas Raffaello Sanzio” e l'anno successivo alla scuola Holden di Torino, ho conosciuto il regista Abbas Kiarostami in un laboratorio di regia alla fine del quale mi è stato proposto di partecipare come attore protagonista al film “Tickets”, di Kiarostami, Olmi e Ken Loach. Da quel momento ho iniziato ad approfondire sempre di più l'arte del cinema. Ho conosciuto e studiato con molti autori come Manoel De Oliveria, Marco Bellocchio e il fotografo Abelardo Morell cercando sempre di prendere da ogni esperienza qualcosa di prezioso per la mia personale espressione.
 


© Paolo Vescovo


Chi sono

Faccio il fotografo e insegno da diversi anni in realtà pubbliche e private e considero la formazione scolastica uno dei momenti fondamentali per le persone ed è importante che lì, ogni insegnate proponga la propria materia come qualcosa di fuso alle altre in un dialogo continuo mostrando nel modo più onesto possibile ciò che è stata la propria storia. A questo lego il lavoro di attore quando capita l'occasione. Penso la fotografia come qualcosa di dinamico. Lo sguardo, il taglio, la scelta dell'inquadratura è sempre stata “un momento di cinema”, mai un solo istante decisivo, piuttosto un tempo preso, una pausa musicale. “Tutto ciò che c'è prima dello scatto è struttura per l'immagine che nasce”. Come in un fotogramma estrapolato da una sequenza cinematografica cerchiamo di dilatare il tempo, punto di contatto tra passato e futuro.

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