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L'altra Istanbul

Fino al 16 dicembre il Museo dell'Ara Pacis di Roma ospita "L'altra Istanbul", un omaggio al più grande fotografo turco vivente Ara Güler e le immagini di altri quattro importanti autori turchi che descrivono la Istanbul contemporanea tra tradizione e modernità.



© Ara Güler

Per la prima volta in Italia saranno esposte 30 fotografie di Ara Güler, che da "cronista", come lui stesso ama definirsi, cattura nelle sue immagini in bianco e nero una Istanbul sofferente. Nato nel 1928, Güler inizia la sua carriera come giornalista nel 1950 e sei anni più tardi incontra due straordinari fotografi della Magnum come Marc Riboud e Henri Cartier-Bresson. A seguito di questo incontro, comincia a lavorare come fotografo per le più importanti riviste internazionali come Paris Match e Life, puntando l'obiettivo della sua Leica in particolar modo sui volti della gente. Le sue immagini ci mostrano una Istanbul a cavallo tra gli anni 50 e 60, ancora legata alle sue tradizioni ma già in veloce sviluppo. Una città bella e malinconica come nei libri del Nobel per la letteratura Orhan Pamuk (di cui, in calce, riportiamo un brano tratto dal suo libro-guida "Istanbul", edito da Einuadi). Momenti da consegnare alle future generazioni: "Poiché non hanno mai conosciuto la città del passato e non possono immaginarla, le nuove generazioni pensano che questa di oggi sia Istanbul e che sia sempre stata così. Quando guardano una vecchia fotografia rimangono attoniti".



© Ercan Arslan



© Coskun Asar

Accanto ad esse, in un percorso artistico e generazionale, l'esposizione presenta le immagini di Ercan Arslan, Coskun Asar, Kutup Dalgakiran e Erdal Yazici, quattro autori che per età e per stile possiamo accomunare al maestro, in cui ritroviamo l'Istanbul moderna, esplosione di vita e di progetti. Una città che pur conservando le sue forti tradizioni guarda alla contemporaneità. Le minoranze etniche che esprimono, nei loro vivaci costumi, stralci gioiosi di vita quotidiana, si mescolano al malessere della gioventù, gli antichi mestieri che non devono essere dimenticati fanno da contraltare ai colori di una città che corre verso il futuro.



© Kutup Dalgakiran



© Erdal Yazici

 

Orhan Pamuk, "Istanbul" (Einaudi, pp. 388, euro 18,50), un estratto dal primo capitolo (Un altro Orhan):


Fin da bambino, per tanti anni ho creduto che vivesse un altro Orhan, del tutto simile a me, un mio gemello, uno completamente uguale a me, in una strada di Istanbul, in un'altra casa simile alla nostra. Non mi ricordo dove e come ebbi per la prima volta questo pensiero. Molto probabilmente, il pensiero si era inciso dentro di me alla fine di un lungo processo, tessuto di incomprensioni, coincidenze, giochi e paure. Per poter spiegare cosa provavo quando questa idea mi balenava nella testa, devo raccontare uno dei primi momenti in cui l'avvertii nella sua forma più evidente. A cinque anni, a un certo punto ero stato mandato in un'altra casa. I miei genitori, dopo la loro separazione, si erano incontrati a Parigi e avevano deciso di lasciare me e mio fratello a Istanbul, ma divisi. Mio fratello era rimasto a Palazzo Pamuk, a Nisantasi, con la nonna paterna e il resto della famiglia. Io invece ero stato mandato dalla zia materna, a Cihangir. Su una parete di questa casa, dove sono sempre stato accolto con affetto e sorrisi, c'era la fotografia di un bambino piccolo, in una cornice bianca. Ogni tanto, mia zia o mio zio, indicando la fotografia, mi dicevano sorridendo: «Guarda, quel bambino sei tu».



© Kutup Dalgakiran

Questo bambino grazioso, dagli occhi grandi, sì, mi somigliava un po'. Anche lui aveva in testa uno di quei berretti che portavo io quando si usciva. Ma al tempo stesso sapevo che non ero esattamente io. (In realtà la fotografia era una riproduzione kitsch, comprata in Europa). Poteva il bambino essere l'altro Orhan cui pensavo sempre, che viveva in quell'altra casa? Adesso anch'io avevo iniziato a vivere in un'altra casa. Era come se fossi stato obbligato ad andare in un'altra casa per poter incontrare il mio simile che viveva da un'altra parte a Istanbul, ma io non ero affatto contento di questo incontro. Volevo tornare a casa mia, a Palazzo Pamuk. Quando mi dicevano che era mia quella fotografia sul muro, nella mia mente tutto si confondeva: io, la mia fotografia, la fotografia che somigliava a me, il mio simile, le immagini di un'altra abitazione si mescolavano e volevo tornare a casa e restare per sempre lì, in mezzo alla mia famiglia.

Il mio desiderio si realizzò e poco tempo dopo tornai a Palazzo Pamuk. Ma l'idea di un altro Orhan che viveva in un'altra casa a Istanbul non mi abbandonò mai. Durante l'infanzia e l'adolescenza, questo pensiero affascinante fu sempre presente in una parte della mia testa che potevo raggiungere con facilità. Nelle sere invernali, camminando per le strade di Istanbul, rabbrividivo al pensiero che in una delle case che mi scorrevano a fianco, con le pallide luci arancioni a illuminare le stanze dove immaginavo che persone felici e serene conducessero un'esistenza tranquilla, vivesse l'altro Orhan.



© Kutup Dalgakiran

Con il passare degli anni quest'idea si è trasformata in una fantasia, e la fantasia in una scena da sogno. Nei miei sogni, a volte incontravo - gridando quasi fosse un incubo - l'altro Orhan, sempre in un'altra casa, e ci guardavamo in silenzio con una freddezza stupefacente e spietata.



© Ara Güler

Allora abbracciavo ancor più stretto, nel dormiveglia, il mio cuscino, la mia casa, la nostra strada, il luogo in cui vivevo. Invece, quando mi sentivo infelice, cominciavo a fantasticare di andare in un'altra casa, in un'altra vita, nel posto in cui viveva l'altro Orhan, e poi credevo di essere l'altro Orhan un altro orhan e mi distraevo con i suoi sogni di felicità. E questi sogni mi rendevano così felice che non c'era bisogno di andare in un'altra casa.

Siamo arrivati al tema centrale: dal giorno in cui sono nato, non ho mai abbandonato le case, le strade, i quartieri dove ho vissuto. So che il fatto che dopo cinquant'anni (nonostante abbia abitato anche in altri luoghi di Istanbul) io viva ancora a Palazzo Pamuk, nel posto in cui mia madre mi prese in braccio per farmi vedere per la prima volta il mondo e dove vennero scattate le mie prime fotografie, ha un legame con l'idea dell'altro Orhan in un altro luogo di Istanbul, come una forma di consolazione. E sento che quello che rende speciale la mia storia per me, e attraverso di me per Istanbul, consiste nel fatto di essere rimasto sempre nello stesso posto, anzi per cinquant'anni sempre nella stessa casa, in un secolo contraddistinto da tanta emigrazione, e dalla potenza creativa che ne segue. «Esci un po' fuori, va' in altri luoghi, viaggia», diceva mia madre con tristezza.Ci sono scrittori come Conrad, Nabokov e Naipaul che hanno scritto con successo pur avendo cambiato lingua, nazione, cultura, paese, continente, persino civiltà. Io so che la mia ispirazione trae vigore dall'attaccamento alla stessa casa, alla stessa strada, allo stesso panorama e alla stessa città, come l'identità creativa di quegli scrittori ha preso forza dall'esilio e dall'emigrazione. Questo mio legame con Istanbul significa che il destino di una città può diventare il carattere di una persona.



© Ercan Arslan
 

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