Michael Yamashita

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Sulle tracce di Marco Polo

Michael Yamashita è uno dei fotografi di punta del National Geographic, forse oggi il più conosciuto. Ha viaggiato e fotografato in tutti i continenti, ma l'Asia resta la sua principale area di interesse. E lì che ha incrociato più volte il cammino di Marco Polo, il mercante veneziano che viaggiò e visse per 25 anni (dal 1271 al 1295) nel lontano Oriente e poi lo raccontò (con l'aiuto di Rustichello da Pisa) nel celeberrimo "Milione". E lì che il fotografo statunitense di origine giapponese si è messo sulle tracce del grande veneziano, ripercorrendone l'itinerario da Venezia e il Medio Oriente lungo la Via della seta fino al Cathay di Kubilay Khan e poi a ritroso via mare verso la città natale lungo le coste dell'Indonesia e dell'India. Una selezione di cento immagini dello straordinario reportage di Yamashita è ora proposta nella mostra (promossa da Edizioni White Star e National Geographic Society) "Marco Polo - Michael Yamashita, un fotografo sulle tracce del passato", ospitata nel cinquecentesco Palazzo Altemps di Roma fino al 22 giugno. Abbiamo visitato la mostra in compagnia di Yamashita, che commentando le immagini e rispondendo alle nostre domande ha continuamente - semplicemente - fatto riferimento a Marco ("Marco parla, menziona, descrive…"), come se Marco Polo fosse un amico, un compagno di viaggio e uno specchio, un suo specchio vissuto sette secoli prima, anche al limite un pretesto - per lui asiatico di sangue e lineamenti - per attraversare buona parte dell'Asia e incrociare ancora le sue radici. Le Edizioni White Star hanno pubblicato, con la consueta cura, il ricchissimo volume "Marco Polo, un fotografo sulle tracce del passato", 504 pagine con 360 immagini a colori e testi di Michael Yamashita e introduzioni storiche di Gianni Guadalupi (euro 29,90), da non far mancare nella propria biblioteca.

Come è nata l'idea del reportage sul viaggio in Oriente di Marco Polo?

Realizzare il reportage è stata una mia idea. Diverse ragioni mi legano all'Asia e negli anni mi sono specializzato nei territori legati anche a Marco. Marco Polo non fu certo il primo viaggiatore occidentale in Cina, ma fu il primo a scrivere dei suoi viaggi, descrivendo un'Asia allora più avanzata dell'Occidente. Nel 1996 era uscito, diventando rapidamente un best-seller, il libro di Frances Wood "Did Marco Polo go to China?", che sottolineandone le omissioni metteva in dubbio la credibilità di Marco. Trovavo che fosse l'aggancio giusto e controverso per proporre al National Geographic l'idea di un reportage lungo l'itinerario di Marco, servendoci del suo diario come guida, e questo è una parte del risultato di quel lavoro. Marco, inoltre, mi ha sempre interessato perché è una connessione con i miei due amori: l'Asia e l'Italia. L'Asia è la mia passione, il posto che mi interessa di più; è stata l'area di lavoro principale per più di 20 anni e lo sarà ancora in futuro (sto per partire per due mesi in Giappone, per un lavoro sui samurai). L'Italia è un paese con cui ho una storia d'amore (da molti anni vengo spesso, anche per tenere dei workshop); sono un viaggiatore professionista, ma vi sono dei luoghi dove pago per andare e uno di questi è l'Italia. Per queste ragioni è stato per me magnifico fare il viaggio, 700 anni dopo, di uno dei più grandi viaggiatori del mondo.

Qual era il tuo scopo principale?
Dare la sensazione di ciò che Marco aveva visto 700 anni fa, ricreare il passato, evocarlo attraverso un'atmosfera. Vorrei fare qualche esempio.


In questa foto scattata in Mongolia, si vedono solo i cavalli e gli allevatori, non c'è niente del XX secolo; qui mi sono sentito molto vicino a Marco. Marco attraversò le grandi dune del deserto del Taklimakan, non lontano da Dunhuang, e descrivendole parla di Singing Sand, le "sabbie che cantano", per il suono curioso che il vento crea soffiandovi sopra. Questa area della Cina centro-occidentale è diventata oggi un'attrazione turistica. Quando sono arrivato là e ho visto tutti quei turisti ho pensato subito che non fosse interessante anche perché c’erano addirittura carovane di cammelli, ciascuno con un proprio numero, con turisti sopra. Io volevo un'immagine che sapesse di XIII secolo, senza le folle di questo secolo. Avevo bisogno di un angolo diverso, nuovo, e così sono andato oltre una gigantesca duna di sabbia, in attesa che la carovana di cammelli venisse verso di me.

E ho fotografato, sottoesponendo per non far vedere troppi dettagli, come i numeri sui cammelli dei turisti, per creare delle silhouettes e restituire la sensazione di una carovana che si sposta all'epoca di Marco Polo. Quando spiego questo, la gente rimane in genere delusa, ma a volte si deve fare così per ricreare il senso di quello che si vuole raccontare. Quell'immagine è ora la copertina del mio libro su Marco.

Quando si cerca di restituire lo spirito del luogo, la trappola è il pittoresco, l'immagine déjà vu, lo stereotipo. Come evitarli?
Questo è il lavoro del fotografo: cercare nuove angolazioni, una nuova luce, un nuovo approccio. È così anche nella musica o nella scrittura: le note, le parole sono quelle; sta a te mettere assieme gli elementi. Anche a Venezia, per esempio, uno dei luoghi più turistici e fotografati del mondo, non è stato facile. È stata una grande sfida per me.

Avevo bisogno di fotografare gli unici elementi originali esistenti quando Marco lascia Venezia nel 1271, due colonne del X secolo di fronte al molo del Canal Grande. Il soggetto era questo, ma avevo bisogno di qualcosa di nuovo. Così ho pensato che una buona immagine sarebbe stata avere le colonne in primo piano e una grande nave nel Canal Grande sullo sfondo. Uno dei miei assistenti scoprì che il 6 settembre di quell'anno, alle 10 di mattina, la Grand Princess, all'epoca la più grande barca del mondo, sarebbe passata nel Canal Grande di fronte alle due colonne. Siamo partiti per realizzare apposta quella foto.

Ho comprato una scala alta tre metri per montarci due macchine e avere una prospettiva dall'alto. Eravamo già a pochi minuti dalle 10, quando è arrivata la polizia a chiedere spiegazioni. La mia assistente ha iniziato a parlare con i poliziotti, per fortuna è anche carina, mentre la nave è entrata in campo, incredibilmente grande, con la sirena che suonava. Il gruppo di uccelli che era sulla piazza si è alzato in volo e io ho scaricato tutto i rullini che avevo e il risultato è questo. Volevo questo effetto e ho avuto esattamente quel che volevo.

Isolare gli elementi di modernità per rimandare più che si può all'epoca di quel che si vuole evocare, ma anche giocare e fare i conti con la modernità.

Sì, certo. A proposito di cose che cambiano nel tempo, guarda questa foto della muraglia cinese. Qui, nella regione del Gansu, è alta pochi metri; questo è un argomento che viene usato come prova da quelli che dicono che Marco Polo non sarebbe arrivato in Cina. Ma la ragione per la quale la grande muraglia non è menzionata da Marco è perché all'epoca non esisteva, ne esisteva soltanto qualche tratto alto poche decine di metri. La grande muraglia, più alta e senza interruzioni, sarebbe stata costruita solo 300 anni dopo.

Come ti prepari prima di partire per un reportage?
Niente è lasciato al caso. Tutti amiamo il caso, che è certo parte del lavoro di un fotografo. Ma bisogna lasciare al caso meno spazio possibile. Io faccio molta ricerca. Quando intravedo la possibilità di una buona foto mi concentro su un soggetto e passo molto tempo a capire e pensare di cosa ho bisogno. Vedo la scena e formo la fotografia nella mia mente, la previsualizzo. Sceneggio, scrivo il copione di una storia, e poi vado a lavorare per realizzarla. So di cosa ho bisogno per raccontare la storia che voglio raccontare e interagisco con la luce e il movimento. Le cose poi possono cambiare, perché mi muovo, cambio angolo, uso la luce naturale oppure un piccolo flash. Fotografo in interno, in esterno, in diversi momenti della giornata, e con una varietà di luce; con diversi angoli di ripresa e diverse distanze, in primo piano, a mezza distanza, a lunga distanza. Ma prima ho tutto questo nella mia mente, varie angoli, diverse distanze, diverse lenti, diverse luci, diversi condizioni climatiche. Certo, il soggetto in sé può orientare la storia, camminando si trovano altre cose: per esempio, la foto con il cammello e il mercante sulla facciata di un palazzo in una calle di Venezia.

Lasci margini di libertà al tuo sguardo?

Sì, assolutamente. Ma devi andare con un piano chiaro nella mente, non lasciare le cose al caso, alla ricerca delle foto che sai di volere. Lungo il cammino vedi molte altre cose e puoi catturarle. Ma devi avere delle linee guida. Non vado al mercato quando è vuoto, ci vado quando le cose stanno accadendo. Per esempio, vado a Venezia quando nel Canale non ci sono barche moderne né grandi barche e questo accade soltanto in occasione della Regata Storica in cui le gondole sono protagoniste.

Per spostarsi così c’è bisogno di budget importanti. Lavorare per il National significa anche questo.
Il National è il miglior magazine che ci sia. Per raccontare storie come queste non esiste niente altro, c'è solo il National per poterlo fare. Nessun altro può affidarti un incarico che duri mesi. Il mio lavoro non è fare foto, ma le foto. Per questo il budget è alto. A volte c'è bisogno di qualche autorizzazione, ma chiedere il permesso non è sempre possibile, perché si perde la foto, l'attimo. Il momento viene prima di tutto, non può aspettare. Se domandi il permesso e perdi il momento, è terribile. A Pagan, in Birmania, per mostrare il piano di pagode che Marco aveva visto e descritto, ho usato una mongolfiera. Aerei, mongolfiere, barche, posso avere qualunque cosa che penso necessaria per il lavoro.

Guarda questa foto con due barche di pescatori scattata all'alba nel bacino del Tonle Sap, in Cambogia. Se l'avessi fatta dal livello dell'acqua, la seconda barca sarebbe stata nascosta dalla prima; invece ho noleggiato una grande barca, ci ho messo una tavola sopra e vi sono salito arrampicandomi più in alto possibile per non perdere l'effetto dei piani diversi che cercavo. In altre occasioni basta poco. A Genova aveva bisogno di fotografare quel che resta di Palazzo San Giorgio, la prigione di Marco catturato dai rivali della Serenissima. Il tempo era brutto, non trovavo niente. Allora sono entrato in una trattoria a mangiare un buon piatto di pasta che amo molto. All'uscita era uscito un bel sole. Ho visto il riflesso della facciata del palazzo su una pozzanghera che si era intanto formata. Ho fotografato, catturando anche la sagoma riflessa di un uccello in volo. Incredibile: un sole meraviglioso, la pioggia. Questa era la foto che cercavo, l'occasione per sospendere l'edificio in una dimensione fuori dal tempo come desideravo. A Siviglia, invece, nella Biblioteca Colombina ho fotografato la copia del Milione di Cristoforo Colombo del XV secolo, con le note a margine di Colombo stesso, che portò con sé in viaggio.

Come definisci te stesso? Un fotografo di reportage, di viaggio?
Sono un fotogiornalista, un fotografo che cerca di mostrare posti reali e gente reale.

Quanto è importante la presenza di persone nelle tue foto?
È di un'importanza assoluta. Sono un narratore di storie. Se vuoi raccontare una storia, devi avere dentro della gente, non solo bei paesaggi. Per riempire la storia, hai bisogno di qualcosa di più che di un'ambientazione, hai bisogno della gente.

Generalmente non parlo con la gente impegnata in qualche attività; osservo semplicemente quel che fanno, per esempio in questa foto della pulitura del riso, scattata nella risiera di Soc Trang in Vietnam, le donne stavano lavorando veramente mentre le fotografavo. Questo mi interessa, la situazione reale. Davanti alla quale mi muovo di continuo per cercare l'angolo giusto, la composizione che mi interessa. Per me sono importanti i diversi piani di un'immagine: il focus, l'attenzione, in un punto, ma poi far vedere anche l'ambiente, il resto.

Quali obiettivi preferisci?
Mi piace fotografare da molto vicino, o con un grandangolo o con un tele, mi fa stare di fronte alla faccia della gente. Amo gli estremi: 16/17-35 mm o 80-200 mm o i nuovi telezoom stabilizzati che arrivano fino a 400 mm e che permettono cose impossibili prima perché puoi tenere la camera ferma e essere in movimento e usare velocità molto basse. Il più delle volte fotografo con il Velvia 50, più di rado con il Kodachrome 200. A volte uso tempi molto lenti e congelo il movimento con il fill flash, usando un piccolo diffusore molto morbido di plastica bianca sul flash. Mi piace lo sguardo e la compressione che dà una lente lunga. Normalmente porto con me cinque corpi macchina 35 mm, una camera panoramica. Non porto camere digitali, come avrei potuto fare un lavoro del genere in digitale? In Afghanistan per esempio? Niente elettricità per ricaricare batterie e nessun modo per riparare la macchina. Porto con me una dozzina di obiettivi, ma se dovessi portarne solo uno porterei il 17-35 mm. Ho sempre detto ai miei studenti nei workshop che il migliore obiettivo zoom che avete sono i vostri piedi, le vostre gambe. Uno dei più grandi sviluppi fotografici è stato quello che ha permesso di decidere esattamente quanta luce flash si vuole: io, per esempio, ne voglio poca, giusto quella che mi serve per illuminare alcune cose, schiarire certe ombre eccessive, ma non voglio l'effetto-flash, non sono un fotografo di moda, voglio la realtà.

Per esempio, per realizzare la foto di una statua sdraiata di un Buddha all'interno di una delle grotte di Mogao, in Cina, non volevo luce flash e così ho usato un paio di specchi dell'albergo lì vicino, piazzando una persona con uno specchio all'ingresso della caverna che ospita il Buddha a raccogliere la luce del sole e rifletterla all'interno della caverna, dove un'altra persona all'interno con un altro specchio inviava a sua volta la luce del sole a una terza persona che aveva un diffusore e che a sua volta la rifletteva sul viso della statua. Volevo una luce morbida, naturale, e ho usato questo sistema perché quando è riflessa da uno specchio la luce non cambia.

Una cosa che viene invidiata ai fotografi del National è la gran quantità di tempo di cui dispongono normalmente per portare a termine un incarico. Spesso i fotografi devono invece fare i conti con il poco tempo a disposizione, ne vorrebbero sempre un po' di più. Quanto hai viaggiato per realizzare queste foto?
All'incirca due anni, ma non in maniera continuativa. A volte sono tornato per un paio di mesi a casa, dalla mia famiglia, anche per cambiare vestiti e comprare qualche altra pellicola prima di ripartire. A volte ho viaggiato con l'autore del testo, Mike Edwards, facendo alcune cose assieme e più spesso altre in direzioni diverse, lui con i suoi autisti e interpreti e io con i miei, ma ritrovandoci spesso la sera e scambiandoci informazioni, racconti, discutendo idee e suggerimenti. In due anni di lavoro su Marco Polo sono complessivamente rimasto via per 36 settimane; se pensi che ho visitato 17 paesi, ti accorgi che non è molto. Ognuno avrebbe bisogno di più tempo, anch'io ho lo stesso problema. Anche se lavoro sempre, all'alba, al tramonto, sette giorni alla settimana, senza un momento sprecato, completamente concentrato su quel che sto facendo. La mia gioia, in una giornata, è fare le foto che sto cercando. E l'unico modo che ho per capirlo è la quantità di film che faccio. Se ne faccio un certo numero so per esperienza che dentro vi sarà qualche buon soggetto: 20 rullini, una grande cosa; 10 rullini, così così; 5 rullini, non sto facendo il mio lavoro. Se fotografo vuol dire che sto incontrando i miei soggetti, sto trovando quel che cercavo. In fondo, sei pagato per fare le foto in quel dato tempo.

A volte ci vuole semplicemente fortuna, ma tu sei pagato per avere fortuna, trovare, se le cerchi (come me in questo reportage), anche la neve, le tempeste di sabbia, la pioggia. Quel che io insegno è che sei tu a costruire la tua fortuna, essendo nel posto giusto, di fronte al soggetto giusto, nel momento giusto, trovando quel di cui hai bisogno nelle condizioni giuste. E tutto questo deriva dal pre-planning.

Tu insegni fotografia anche in Italia, negli appuntamenti proposti dal Toscana Photographic Workshop.
Insegnare è un buon esercizio per un paio di ragioni. Una è che quando sei un fotografo professionista parli soltanto del contenuto della foto, se la foto funziona o meno; non ti metti ad analizzarne la composizione, la luce, il movimento, eccetera. Quando insegni ti soffermi su diversi punti di vista, usi un altro vocabolario. Mi piace tornare a questa dimensione una o due volte l'anno, pensare e discutere di fotografia, in cosa e perché una foto funziona o no. E poi è un piacere tornare in Italia a insegnare, vengo normalmente con la mia famiglia, fa ormai parte del mio stile di vita. Ed è anche un vero piacere vedere come gli studenti fanno progressi in una settimana; a volte è una grande, piacevole sorpresa.

Fotografare e viaggiare sono le tue due passioni, ma quando e come hai cominciato?
Ho iniziato tardi, non ho avuto una mia macchina finché ho lasciato il college a 22 anni, quando ho comprato una Nikon. Ho imparato a usarla e mi sono completamente fatto prendere dalla fotografia.

 

E come è cambiato nel tempo il tuo lavoro?
Senza dubbio la differenza maggiore sta nel sapere di più quello che sto cercando, di cui ho bisogno, dove puntare la camera. E anche nel fare molta ricerca prima. L'esperienza mi ha insegnato ovviamente qualcosa anche a livello di tecnica, auto-focus, fill flash, obiettivi stabilizzati.

Cosa pensi, per finire, di quei paesi che hai attraversato - come l'Afghanistan o l'Iraq - che sono ora in una situazione drammatica?
È sconvolgente. Pensare che solo qualche mese dopo la fine del mio incarico c'è stata la guerra in Afghanistan, prima ancora l'assassinio di Massud, il grande comandante che mi aveva accolto nel nord dell'Afghanistan. È scioccante, come la guerra in Iraq. Ora guardo le mie foto in una luce molto diversa.

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